Approfondimenti

Filandiera e meccanico… dopo più di 40 anni

di Alessandro Zaltron


Luisa ha 73 anni e le mani di una che ha lavorato tanto. Luisa Pituello è una delle ultime filandiere italiane e forse anche d’Europa. Ha iniziato a 14 anni nella storica filanda di Bertiolo, provincia di Udine, e sempre lì ha smesso di occuparsi della seta nel 1971, anno in cui l’opificio ha chiuso definitivamente.

Quando le hanno detto, chiedendoglielo più volte per convincerla, che era richiesta come “insegnante di seta”, la sua prima risposta è stata «no». Troppo il tempo passato. Paura di sbagliare, addirittura, e Luisa lo confessa con l’umiltà di chi sa che lavorare bene non autorizza a insegnare. Ma alla fine ha acconsentito, più che altro per curiosità. Alla vigilia della partenza per Nove, tutta la notte ha lavorato in filanda. Ha provato le macchine e rivissuto la sua carriera. In sogno: un turno di notte onirico.

Luisa arriva alla sede di D’orica perché qui si trova l’ultima filanda dell’Occidente, una Nissan del 1971 acquistata dalla ditta orafa inizialmente per produrre seta autoctona con cui confezionare una linea di gioielli e poi diventata il fulcro della rinascente filiera italiana della seta. «Quarantun anni che non facevo il nodo, e l’ho fatto al primo tentativo» confessa Luisa con un pizzico di orgoglio. “Fare il nodo” significa unire i diversi fili di seta con un nodino invisibile all’occhio e al tatto, in modo da ottenere un filato continuo. È una delle fasi della lavorazione della seta, una delle più delicate dal momento che ogni errore implicava spreco di materia prima. Un gioco di prestigio delle dita.

Luisa ha passato tutti i reparti della filanda, fino a diventare responsabile di una squadra. I primi tempi le affidavano i compiti più semplici, di pulizia e preparazione, poi l’hanno mandata a imparare il mestiere a Martinengo, in una filanda bergamasca. Al ritorno si è occupata del resto: la “scopinatura” (trovare il primo capo del filo di ciascun bozzolo usando una specie di scolapasta rovesciato), quindi “le maestre” (la trattura, il processo di srotolamento che dal bozzolo porta al filo lavorabile, un tempo svolto con le bacinelle di acqua bollente) e “la groppina” (annodare quando si rompe il filo).

«La pulizia era essenziale, – ricorda Luisa – per quello ogni sera si puliva tutto e si cambiava l’acqua. Ufficialmente lavoravamo otto ore al giorno, ma erano quasi dieci perché le mezz’ore di pulizia e sistemazione non venivano conteggiate nella retribuzione. Per andare in bagno bisognava chiedere il permesso. I turni erano calcolati in modo da non dare lo stacco previsto dopo sei ore di lavoro continuativo. Quando ho avuto il mio primo figlio, dopo pochi giorni ero già al lavoro; mi assentavo qualche minuto per andare da mia madre ad allattarlo e tornavo di corsa in fabbrica. Però il tipo di lavoro mi piaceva tantissimo».

Del bozzolo, come del maiale nella civiltà contadina, non si buttava via niente. La spelaia, cioè la bava sottile esterna che avvolge il bozzolo, era ottima per imbottire i materassi (ideale per gli allergici visto che allontana gli acari). Con gli scarti del bozzolo si facevano le corde delle navi. Le crisalidi diventavano cibo per i pesci e l’olio di crisalide finiva nei prodotti di bellezza (la seta rende la pelle come… seta). Altro che l’economia circolare di cui si favoleggia oggi!

La seta era ricchezza. La chiamavano “il primo raccolto dei contadini” ed era in effetti l’incasso iniziale dell’anno, per loro: il primo maggio si vendevano i bozzoli. Grazie alla seta viveva l’intero paese, dentro e fuori dalla fabbrica, ed era un lavoro che si tramandava di generazione in generazione. In filanda avevano lavorato la mamma di Luisa, dall’età di dodici anni, e sua sorella più grande. Alla seta si dedicavano le donne perché è un lavoro delicato, di precisione. A Bertiolo, su duecento dipendenti (un decimo degli abitanti del paese), soltanto due erano maschi: i meccanici. Come Renato Lant, impiegato a Clauiano e Palmanova nelle ultime filande del Friuli e d’Italia.

Renato-Lant-vert«Il mio compito era far funzionare tutte le macchine» commenta spalancando le braccia. Ancora a fine anni Sessanta si usavano macchine a vapore, come quelle dei treni che vediamo nei film sulla conquista del West. Renato ha imparato da solo a riparare e smontare le caldaie Cornovaglia, inventate all’inizio del 1800 e talora recuperate da ex piroscafi. Le caldaie funzionavano tramite cinghie che si rompevano con una certa frequenza; Renato le costruiva a mano ritagliando pezzi di cuoio. Specialmente da giugno ad agosto, periodo dedicato all’essiccazione, il meccanico era in servizio ventiquattr’ore su ventiquattro. Dormiva in un lettino accanto alle macchine e, quando qualche meccanismo si bloccava, le operaie correvano a svegliarlo. «Se non intervenivi subito, si doveva buttare via tutto» ricorda Renato.

Sembrano tempi preistorici a Giada Ganassin, la ragazza che ha l’onore di imparare la lavorazione della seta direttamente da Luisa e di utilizzare la filandina ottimizzata da Renato, macchina che Giada, nativa digitale, chiama “Playstation antica”.

«Ho passato le vacanze natalizie – dice la neo addetta – a studiare libri e articoli sui bachi, il bozzolo, la seta. In più, mia nonna mi sta dando un sacco di ragguagli legati ai suoi ricordi personali. Ma è ancora più bello fare. Ho iniziato la nuova attività selezionando i bozzoli e ora affronto la filanda. È un’esperienza fantastica, un lavoro che impegna le mani e il cervello».

Un lavoro stimolante, un recupero di tradizione e valori, un legame fra le generazioni dopo il salto di mezzo secolo. Un lavoro sostenibile e, per come l’ha pensato Giampietro Zonta, capo dei “Serici”, pure etico. Che volete di più?